2.1 Il vecchio e il nuovo: “ragionazione” e filosofia

 

    Il Settecento è un secolo straordinario, certamente il più importante, in assoluto, nella definizione di ciò che sarà l’Europa e l’Occidente sino ad oggi, ma numerosi suoi elementi culturali risalgono a duecento anni prima ed alcuni anche oltre. Per molti versi esso è solo la fase più rilevante di un processo iniziato nel Cinquecento e ancora in corso, visto che ci si trova nel XXI secolo a dover fare i conti con il pericoloso riflusso di un integralismo e di un fanatismo metafisico-religioso che mettono in pericolo le faticose conquiste della cultura laicista. La visione laica della vita e la sua separazione dalla fede, rimanendo questa un’opzione rigorosamente individuale ed intima, è nata in Europa nel XVIII secolo. Ma esso ci ha recato un’altra eredità culturale assai importante, peraltro già apparsa nel XVII, ed è la dicotomia tra la vecchia ragionazione pura, tesa a costruire sistemi teologici, e la filosofia come amore del conoscere, cioè tra una metafisica come culmine del cogito antropocentrico e lo studio della natura in se stessa. Dicotomia che si esprime anche nella contrapposizione tra i logico-matematici e gli osservatori-sperimentatori, tra i deduttivi e gli induttivi. La modernità si avvia a costruirsi anche attraverso questa guerra intellettuale, mai sufficientemente studiata, tra un vecchio e sacrale intellettualismo teologico che cerca di  “conservare ” e un nuovo pensiero scientifico-filosofico che cerca di “innovare”. E ciò, si badi bene indipendentemente fal fatto che i partigiani del primo siano necessariamente più devoti dei secondi, poiché, le due personalità più notevoli tra questi, Bacone e Gassendi, non sono meno devoti di Cartesio o di Berkeley. 

    Ciò che caratterizza, allora, la cultura dei Lumi è un coacervo di indirizzi fondamentalmente teologici, ma differenziati, e portatori o di un ritorno ad un passato culturale  messo in pericolo da un’ondata di nuove istanze profane. Un passato teologico, quindi, da difendere e da rafforzare, contrapposto ad un modo nuovo di guardare alla realtà che aveva trovato le proprie radici nel terreno del Rinascimento. Una temperie culturale che aveva tentato di tagliare i ponti con un passato teocentrico e teologico, in vista di un rinnovamento e antropocentrico e naturalistico. Un primo filone di esso aveva assunto un profilo decisamente platonico e neoplatonico, un secondo consisteva in una corrente neo-aristotelica (e quindi ancora metafisica), un terzo in un indirizzo naturalistico-scientifico che guardava alla natura come fonte primaria di conoscenza e di integrazione esistenziale. Il primo filone è eminentemente rappresentato da Marsilio Ficino, il secondo da Agostino Nifo, il terzo da Bernardino Telesio. La prospettiva rinascimentale muta nel Seicento con l’irrompere della ricerca astronomica, con la scoperta e la conferma di una Terra non più al centro dell’universo, bensì posta alla periferia di una stella che ne determina l’esistenza. Ciò  è potenzialmente disgregante per la fede, andando l’eliocentrismo ad impattare direttamente sulla lettera biblica, poiché diventa difficile continuare a credere che Giosuè abbia potuto fermare da ciò che si muove ciò che sta fermo. La fisica, dunque, contro la teologia, una fisica che va combattuta in nome di una verità che nessun’osservazione potrà mai mettere in forse: è il problema di Galileo, della fede e della sua conciliazione con la scienza. Una scienza che vede i suoi fari in Copernico, Galileo e Keplero, ed ancora in Galileo stesso e Bacone per quanto riguarda la metodologia scientifica, a cui si aggiunge l’empirismo e il sensismo di Locke. Ma intanto una rilettura di Epicuro da parte di Gassendi e dei Libertini introduce anche un turbativo elemento atomistico, che però si pensa, almeno nella riflessione gassendiana, di poter conciliare con la fede cristiana.

    Per quanto differenti si offrano questi vari aspetti innovativi nella cultura del Seicento, ciò che, con la sola eccezione dei Libertini, risulta dominante è una visione del mondo ancora sostanzialmente religiosa, tendenzialmente deterministica, provvidenzialistica, ottimistica, antropocentrica e mentalista. In questo panorama la presenza di Cartesio rimane incombente, poiché la sua ontologia dualistica e idealistica incomincia a perdere colpi e spazio solo verso la fine del secolo, man mano che la fisica newtoniana ne scalza i presuntuosi e astratti princìpi. Restano però presenti gli assiomi del dubbio metodico e del cogito ergo sum, il primo alimentatore dello scetticismo anti-sperimentalistico, il secondo del mentalismo spiritualistico, ma entrambi sempre fondati sugli eterni dogmi del platonismo e più spesso su quello rivisitato da Sant’Agostino. In quanto al dubbio metodico: esso significa, in soldoni: “di tutto si deve dubitare fuorché di Dio”, e, per quel che riguarda il cogito ergo sum, esso può essere correttamente interpretato come un: “l’unica realtà certa è il pensare”. Ma per quanto riguarda questa seconda “grande verità” idealistica sappiamo che Gassendi vi si oppose energicamente (e possiamo persino immaginare che qualche libertino burlone e sboccato potesse sostituirvi un defaeco ergo sum, certamente triviale, ma, dal punto di vista gnoseologico, sicuramente più fondato).

    Uno dei problemi che riguardano il pensiero secentesco anti-convenzionale (e tuttavia nominalmente  cristiano) riguarda il fatto che in maggiore o minor misura la censura ed i rischi connessi alle sue condanne abbiano potuto condizionare e nascondere una possibile miscredenza. Non sono pochi gli storici convinti che i rischi di apparire blasfemi o poco devoti fossero così elevati da indurre molti a mitigare le posizioni potenzialmente censurabili e ad infarcire i loro scritti di  professioni di fede. Vi è stato più d’uno, e tra questi lo spesso citato Vartanian, che ha osato pensare ciò persino di Cartesio, sicuramente uno dei più convinti e reazionari teologi del Seicento, facendo inoltre di Diderot un suo propalatore ed epigono (sic!) Abituati come siamo a sentirne di ogni genere sull’Illuminismo non ci stupiamo più di nulla, ma ci corre l’obbligo di sottolineare che in assenza di dati biografici in contrario soltanto i testi, nella loro icasticità, ci permettono di trarre giudizi. E ciò anche relativamente ai testi degli autori che prenderemo in considerazione: essi  testimoniano “tutti” una sicura e ferma fede cristiana, senza che si abbia alcuna ragione di poterne dubitare. La nostra spiegazione? Che nel Seicento è quasi impossibile non essere cristiani, e che ancora nel Settecento pare assai difficile non credere almeno nel Dio-Necessità o nella Dea-Natura. Vi è poi il super-teologo materialista Hobbes che materializza e matematizza-meccanicizza tutto il Creato, concedendo però (probabilmente a malincuore!) un’essenza spirituale al Creatore, non potendo “fare lo stoico” sino in fondo.   

    I turbamenti materialistici e soprattutto indeterministici del libertinismo costituiranno una corrente sotterranea, ma montante, che emergerà in tutto il suo peso solo più tardi, scatenando le rampogne di un Bossuet, che vi vedeva una grave pericolo, e fargli ribadire:

 

Quello che il nostro incerto giudizio scambia per un caso è un disegno elaborato da un superiore giudizio, da quel giudizio eterno che comprende in una sola unità tutte le cause e tutti gli effetti. In questo modo tutte le cose cooperano allo stesso fine, ed è solo perché non siamo capaci di comprendere il tutto che vediamo casualità ed irregolarità in accadimenti particolari. [1] 

 

Come si vede quella del Disegno Intelligente è una suprema verità che ritorna in tutte le forme possibili entro i due poli del Dio-Volontà e del Dio-Necessità, reciprocamente interscambiabili quali fondamenti di due teologie complementari  

    Per comprendere adeguatamente che cosa rappresenti il Settecento nella storia della cultura bisogna partire da un coacervo di eredità multiformi per coglierne sia le permanenze e sia le messe in discussione, molte delle quali frutto di ricerche e scoperte scientifiche. Solo gli scienziati potevano insinuare seri dubbi circa un confortante e rassicurante quadro cosmico, proprio perché il “dubbio metodico” di Cartesio aveva messo in mora le opinioni umane, comprese le acquisizioni scientifiche, ma non la credenza nell’esistenza di Dio. Questa, anzi, usciva rafforzata sia dalla filosofia profondamente fideistica di Newton e sia dalle metafisiche razionalistiche. Secondo Cartesio, come è noto, di tutto si doveva dubitare salvo che della presenza del Creatore nella nostra anima, sì da garantire l’uomo dell’assoluta verità della credenza in Lui. Atteggiamento aprioristico che non solo rafforzava la credenza platonico-cristiana in una verità innata nell’anima di ogni uomo (res extensa particolare come pars parte della divina res extensa generale) ma confermava, nel pensiero, le idee-verità concernenti Dio e la sua indubitabile esistenza. E tuttavia, il pensiero cartesiano, attraverso la sua enorme influenza culturale, era stato, paradossalmente, col suo equivoco dualismo pensiero/materia, all’origine di molti degli sviluppi materialistici del secolo successivo. Se la fisica cartesiana era infatti del tutto inconsistente (cosa della quale già nella seconda metà del XVII secolo molti erano consapevoli) nondimeno il suo meccanicismo della materia era un dato culturalmente acquisito e dalle pesanti, e negative, conseguenze per la cultura del secolo successivo.

    Erano soltanto alcuni scienziati, come Réamur (1683-1757), peraltro un cristiano integralista, che potevano avanzare il dubbio che le idee di per se stesse (ovvero i ragionamenti astratti ad opera della res extensa) non potessero portare alla conoscenza del mondo reale, e che tutte le classificazioni operate dall’uomo fossero soltanto delle convenzioni di utilità descrittiva. Un atteggiamento che riprende l’osservazionismo e lo sperimentalismo galileiani, operando una radicalizzazione che Galileo, peraltro, aveva evitato, cioè l’affermazione che “soltanto” la corretta osservazione e l’esperimento, la loro verifica e la loro ripetibilità confermativa, potevano valere come “conoscenza” affidabile. Non era certo questo l’atteggiamento di Descartes, che disprezzava gli esperimenti e che distillava le sue teorie quasi esclusivamente sulla base di astratte elucubrazioni metafisiche; e tuttavia, paradossalmente (ma comprensibilmente, in funzione di una “cogenza” psichico-metafisica ancora dominante), sarà proprio meccanicismo cartesiano ha influenzato la cultura scientifica francese sino alla metà del Settecento. Ci pare che abbia colto bene il senso del cartesianesimo Alfred Rupert Hall quando scrive: «Così la scienza di Descartes è un sistema centrifugo, che opera verso l’esterno partendo dalla certezza dell’esistenza della mente e di Dio per abbracciare le verità universali o leggi di natura scoperte dalla ragione, e quindi dalla “concatenazione di tali verità” svela i meccanismi implicati nei fenomeni particolari.» [2]  Un procedimento totalmente arbitrario, quindi, ma la cui presenza nella cultura francese rallenterà per lungo tempo l’ingresso della ben altrimenti fondata fisica di Newton. 

    Si mette in evidenza nel Seicento, visto come un pre-Settecento, la differenziazione, e  in qualche caso la dicotomia tra i ragionatori e i filosofi; un conto è, infatti, fabbricare sistemi di pensiero, altro conto fare ricerca con l’uso del pensiero. Si tratta di un punto metodologico dirimente per la conoscenza: mentre Spinoza e Leibniz fabbricano sistemi, Locke e Bayle “ricercano”; i primi due hanno un progetto, uno scopo ideologico ed apologetico, i secondi lasciano che il pensiero svolga percorsi intuitivi e analitici, finendo in meandri cogitativi complessi, ma uscendone per cercare altre vie gnoseologiche. Questo è il “fare filosofia”, mentre quello dei teologi filosofali è un mero “fare ragionazione”.

    Il Seicento aveva lasciato in eredità al Settecento due modelli gnoseologici, quello astratto di Cartesio e Hobbes e quello concreto di Bacone e Locke. Il passo fondamentale compiuto dagli Illuministi sarà quello di abbandonare il cartesianesimo per affidarsi al newtonismo, ma in Francia il meccanicismo metafisico di Descartes rimane assai più presente di quello scientifico di Newton. Ma il razionalismo di buona parte dell’Illuminismo francese ha ormai poco a vedere coi meccanismi logico-dialettici della metafisica, basandosi sulla consapevolezza della relatività della conoscenza. Una relatività tipica della scienza, che si occupa molto del “come” e assai poco del “che cosa”, come aveva insegnato Bacone e ribadito Newton. Quando il grande Isaac vedeva se stesso come un bambino che giocava con la sabbia sulla battigia di un mare sconosciuto, era infatti consapevole dei limiti della conoscenza, che è valida nella misura in cui più sa e più intravede la vastità di ciò che non sa. Atteggiamento opposto rispetto alla presunzione metafisica di sapere a priori le verità essenziali da cui dedurre le contingenze della realtà. Tra la ricerca sul “reale” concreto dello scienziato e la meccanica deduttiva e astratta dalla logica vi è quell’abisso che delimita due sponde, non già complementari come spesso si sente dire, ma invece assolutamente dicotomiche del sapere.

    Esiste una corrente critica piuttosto forte e anche fortunata in termini di attenzione e apprezzamento che pone Cartesio come uno dei padri dell’Illuminismo. Noi non siamo d’accordo e riteniamo, anzi, che il suo metodo critico, per quanto assai interessante come specchio di un Barocco in evoluzione, sia zoppo nella misura in cui mette in discussione la conoscenza, ma per nulla la fede. L’Illuminismo, quindi, poteva assumere il modello cartesiano solo fraintendendolo, come peraltro è accaduto a La Mettrie; e se la presunta eredità di un pensiero si basa manifestamente su un equivoco, è difficile non constatare che molto “cartesianesimo” settecentesco è in realtà non-cartesiano e per alcuni aspetti persino anti-cartesiano. Non è tutto, vi sono storici come il Vartanian che ci presentano Descartes quasi come un ateo ante-litteram, una tesi certamente affascinante, ma che si rivela del tutto inconsistente appena si abbia la pazienza di leggere “attentamente” i suoi testi: i tentativi di far passare Cartesio per un pre-ateo sono smentiti da Cartesio. Molto differente è il discorso se si prende in considerazione il meccanicismo, di cui Descartes è stato sicuramente il maggior promotore sul piano metafisico. Esso si presentava come “estremamente utile” quale sostegno del materialismo, poiché consentiva, in quanto attributo di una res extensa sganciata dalla cogitans, di costituire una valida (e prestigiosa) stampella teorica. Descartes, in realtà, resta fondamentalmente un platonico; egli ha semplicemente spostato l’asse dei suoi interessi dall’idea astratta e spirituale (il pensiero) verso la sua imitazione-creazione concreta e reale per la percezione sensoria (la materia).   

    Newton, che non credeva ai “meccanismi” della materia alla maniera di Cartesio e Leibniz, era con grande soddisfazione giunto alla constatazione che le leggi fisiche da lui scoperte spiegavano molte cose, ma non rivelavano un universo rigorosamente meccanicistico, essendo il movimento non una costante dell’universo, bensì ciò che «è molto più predisposto ad essere perduto che acquistato, ed è sempre in declino» [3]. Senza che egli se ne rendesse conto, in quest’asserto, era implicato ante litteram anche il secondo principio della termodinamica, in quanto “perdita” di energia utile e “perdita” di ordine; ma, all’epoca, i sostenitori dell’immutabile ordine divino erano i dominatori incontrastati delle coscienze. Alle deficienze del “sistema cosmo” in termini di immutabilità del moto, si accompagnava anche l’irregolarità degli assi di rotazione dei pianeti, sicché Newton era convinto (contro Leibniz) che Dio dovesse continuamente intervenire per riaggiustare il corso delle cose. Un Dio però, è il caso di sottolinearlo, che in effetti pareva più “necessitato” ad intervenire come manutentore obbligato, piuttosto che “libero” di farlo. Ma l’importante della conclusione newtoniana era che, sul piano fisico, era contraddetta la credenza metafisica in un ordine “necessario in quanto intrinseco” (come pretendeva Spinosa), “impresso ma autonomo” (come voleva Descartes), “impresso ma necessitato” (come teorizzava Leibniz). L’importanza della conclusione scientifica di Newton non sta nel fatto che egli, in quanto credente, si vedesse costretto ad attribuire a Dio un indispensabile riaggiustamento continuo dei movimenti del cosmo, quanto che essi non fossero necessitati da un “meccanicismo” immutabile, e quindi statico, ma come qualcosa che quasi sfuggisse continuamente di mano al Creatore.

    Tuttavia, che i mutamenti potessero avvenire “per caso” era del tutto fuori della visione del mondo del pio Isaac, che però, da fisico attento, finiva per ammettere mutamenti cosmici contingenti e non-programmati da Dio. In realtà la cultura settecentesca era ancora del tutto impreparata a considerare la casualità come fattore evolutivo della dinamica cosmica, se non nella misura in cui l’eredità di Epicuro e Lucrezio era ritornata, col Rinascimento, ad essere presente nel patrimonio culturale seppure con un’influenza modesta. Ciò che si dava per noto ed acquisito era che Newton avesse ”dimostrato” l’esistenza di Dio attraverso la necessità del “Suo” intervento sul cosmo, che Cartesio avesse teorizzato che il cosmo si muoveva “da se stesso” e che Spinoza fosse un ateo perché sosteneva che il cosmo fosse Dio e nel contempo Necessità assoluta. Sarà quindi il cartesianesimo la base prevalente del materialismo settecentesco, esclusivamente determinista, il quale, per quanto prevalentemente ateo, rimetteva in gioco un Dio-Necessità panteista al posto del Dio-Volontà monoteista. Entro questo gioco circolare ambiguo ed equivoco di divinità esplicite o implicite, tra una Necessità o una Volontà metafisiche quali cause prime dell’universo, si manifesta l’impotenza non solo di superare il determinismo cosmico, ma di intravedere compiutamente l’evoluzionismo biologico, ricadendo in un vitalismo ilozoista che bloccherà per lungo tempo l’evolvere della biologia. Toccherà a Darwin, ma molti decenni più tardi, di portare alla luce della conoscenza il sostanziale indeterminismo nell’evoluzione della materia vivente

    Ci occuperemo nei paragrafi seguenti di sei pensatori, cinque di essi sono, senza riserve, innovatori della cultura del loro tempo ed anticipatori di molti concetti illuministici più tardi sviluppati. Un caso a parte è Hobbes, il cui lascito ha due versanti: uno d’avanguardia, quello ontologico e gnoseologico, e uno reazionario, quello socio-politico. Ma su tutto emerge la sua antropologia, espressa con la famosa espressione homo homini lupus, che vede l’homo allo stato di natura in radicale belligeranza coi suoi simili, con l’unico sbocco positivo e risolutivo nell’istituzione dello stato. Sul primo versante, quello sensistico-meccanicistico-materialistico, vi sono numerosi aspetti che ritroveremo nel pensiero laico del Settecento; sul secondo, concernente l’etica e la politica, e sfociante nella teorizzazione dell’assolutismo dispotico monarchico, è difficile non cogliervi un manifesto anti-illuminismo. Perché allora daremo tanto spazio al Leviathan? Perché non avremmo potuto limitarci a trattare del De corpore senza rapportarlo ad esso, ed anche per mettere in evidenza uno di quei frequenti usi “strumentali” di concetti che, “facendo comodo”, vengono tarpati ed adattati all’uopo. Hobbes è un materialista rigoroso e intransigente, ed è anche uno che fa della matematica il fondamento del conoscere. Se si mette tra parentesi Dio, che riguarda i tre quarti della sua opera, e si piega il quarto che resta ad un uso “a piacere”, che funga da puntello storico di un materialismo che si pretende “ateo”, il gioco è fatto. Un gioco mistificante, e che tuttavia “funziona” nella misura in cui basta assumere materializzazione e meccanicizzazione ed escludere il nucleo duro teologico per farne un padre dell’ateismo. Hobbes è principalmente un teologo, che fonde il Dio-Necessità stoico con quello della Bibbia, e che coniuga determinismo e provvidenzialismo in una teoria antropologica e politica compiuta. I materialisti deterministi che hanno guardato a lui e al suo radicale necessitarismo si sono resi conto di tale inscindibile nesso teologico di fondo? C’è da dubitarne. Ma d’altra parte, quanti sono, anche oggi, veramente consapevoli di quale sia il “senso” teologico del determinismo? In realtà molto pochi. La confusione ontologica pare continuare a regnare indisturbata.